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Se un paziente muore per effetto di malpractice medica ci sono diversi danni risarcibili: il danno subito dai congiunti per aver perso un proprio caro, ma anche i danni cd. terminali patiti dal paziente stesso dopo l’errato intervento medico e sofferti fino al momento della morte.
I congiunti del paziente possono infatti agire a nome proprio contro l’ospedale per lesione del rapporto parentale, bene costituzionalmente garantito.
Ma anche il paziente stesso, vittima diretta di malpractice medica, può subire un danno biologico e morale che scaturisce dall’errato intervento sanitario e che si protrae fino al momento del decesso: questo danno, morendo, si trasmette agli eredi.
Si tratta, infatti, di un danno non patrimoniale trasmissibile per successione ereditaria che consta di due profili: quello biologico che dà luogo al cd. “Danno terminale” e quello morale che consiste nel cd. “Danno catastrofale”.
Si tratta di due componenti distinte e autonomamente liquidabili.
Il danno “terminale” è un danno biologico alla salute che, per quanto concerne la monetizzazione, viene considerato come un’invalidità temporanea totale, massima nella sua intensità, tanto che la lesione alla salute è così grave da esitare nella morte. Per la liquidazione si fa riferimento alle apposite tabelle elaborate dal Tribunale di Milano proprio con riferimento al danno terminale.
Il danno “catastrofale” o da “lucida agonia”, invece, è un danno morale che incide sulla psiche e che consiste nella profonda angoscia patita da un paziente, lucido e cosciente, per aver percepito l’aggravamento delle proprie condizioni e l’inesorabile morte imminente. Se un paziente è in coma, dunque, non ci sarà il danno da lucida agonia proprio perché il soggetto in coma non è in grado di percepire la propria condizione.
Articolo pubblicato su ECO DI BIELLA 3 agosto 2020