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Per legge i genitori hanno il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli anche oltre la maggiore età e fino al raggiungimento dell’indipendenza economica che, in tempi di crisi, potrebbe realizzarsi anche oltre i 30 anni.
Il Codice Civile, infatti, prevede espressamente all’art. 337 septies che “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.
Ma se è proprio il figlio a rifiutarsi di spiccare il volo, rimanendo tenacemente aggrappato alla sottana di mammà, questo obbligo giuridico di mantenimento può ancora ritenersi costruttivo?
Nei casi in cui il figlio si ostina a ciondolarsi appeso al rassicurante cordone ombelicale anche dopo aver conseguito una laurea o trovato lavoro, è educativo fare appello alla norma di legge?
Per evitare che l’obbligo di assistenzialismo familiare sconfini nel parassitismo bisogna tener conto di una serie di fattori: il figlio sta studiando con profitto? E’ pigro? Dovrebbe lavorare e non vuole?
Prima di parlare di dovere di mantenimento bisognerebbe tener conto sia delle qualità e capacità del figlio, sia dell’eventuali “colpe educative” dei genitori-chioccia.
Se per esempio il figlio rifiuta le occasioni di lavoro che gli vengono proposte bisognerà valutare le condizioni patrimoniali della famiglia d’origine e la sua posizione sociale: un conto è il figlio di benestanti laureato in una facoltà particolarmente impegnativa che rifiuta di svolgere lavori saltuari non attinenti al suo percorso di studi, altro caso è il rampollo che non vuole lavorare nell’azienda di famiglia né studiare pretendendo al contempo di essere mantenuto da mamma e papà.
Forse più che la legge può il buon senso.