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Una volta certi segreti si portavano nella tomba.
Oggi invece, se il segreto è l’esistenza di un possibile figlio non riconosciuto frutto di qualche relazione adulterina, questo vecchio motto popolare non è più così vero.
Da un lato i progressi scientifici consentono l’esecuzione di indagini di paternità su cadaveri esumati bastando minime quantità di DNA anche degradato, dall’altro la Cassazione con sentenza del 2008 ha confermato la possibilità di procedere all’accertamento genetico in via collaterale sui familiari del defunto, specificando che se i parenti ingiustificatamente rifiutano di sottoporsi al test, il Giudice può trarre dal rifiuto un argomento di prova circa la sussistenza del legame di filiazione tra il figlio e il presunto genitore defunto.
La questione è scottante: da un lato ci sono segreti di famiglia portati nella tomba dal presunto padre che rischiano di essere svelati sconvolgendo la tranquillità della sua famiglia legittima, dall’altro c’è il dramma di chi cerca il proprio padre tutta la vita e non si ferma nemmeno di fronte alla morte, perché il bisogno di radici e di identità può essere una pulsione insopprimibile.
Alcune volte poi, il sedicente figlio potrebbe agire solo perché vanta pretese ereditarie o, peggio ancora, per minacciare con iniziative processuali infondate il buon nome di una famiglia. In questo caso si può invocare l’art. 96 cpc che condanna al risarcimento dei danni chi intenta una lite temeraria.
Altre volte fortunatamente chi reclama in giudizio il proprio status di figlio è spinto solo dal desiderio di trovare la sua famiglia e allacciare rapporti con gli altri figli del padre deceduto. Per questi casi ci auguriamo che dal legame di sangue possa nascere anche un legame d’affetto.
Che a parlare sia il cuore e non solo il DNA.