Una moglie tunisina trasferitasi in Piemonte viene a scoprire che suo marito, già da tempo emigrato in Italia, ha portato avanti nel tempo una stabile convivenza con un’altra donna, dalla quale ha anche avuto un figlio; lui però, invece di negare o nascondere il fatto, ricatta la moglie con l’ultimatum “se proprio non sopporti la situazione, puoi tornare in Tunisia da dove sei venuta, visto che senza di me non potresti mantenerti in Italia”.
Oltre il danno la beffa, verrebbe da dire, ed invece la moglie, anziché fare i bagagli e tornarse sconfitta nel suo paese, nel 2013 decide di presentare denuncia avviando quel procedimento che ha visto condannare il marito per il reato di “maltrattamenti contro familiari o conviventi” di cui all’art. 572 cp.
La norma in questione punisce con la pena base della reclusione da 2 a 6 anni chiunque “maltratta” una persona della famiglia o comunque convivente o a lui affidata per ragioni di educazione, cura o custodia.
Il concetto del “maltrattare”, tuttavia, è molto ampio: il fatto che la condotta di maltrattamenti non sia puntualmente definita dal Legislatore, lascia ampio spazio alla valutazione del Giudice.
Secondo dottrina e giurisprudenza consolidate può classificarsi come “maltrattante” qualsiasi complesso di atti prevaricatori, vessatori e oppressivi reiterati nel tempo, tali da produrre nella vittima un’apprezzabile sofferenza fisica o morale.
Nel caso di specie, il ricatto alla moglie volto ad imporle la presenza dell’amante dietro minaccia di tagliarle i viveri e costringerla a tornare nel proprio paese d’origine, è stato giudicato come una condotta gravemente lesiva della personalità del familiare, tale da integrare gli estremi del reato di cui all’art. 572 cp.
Articolo pubblicato su ECO DI BIELLA 9 gennaio 2017