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Nel momento in cui si vivacizza il dibattito sull’introduzione di una disciplina specifica per le unioni civili e per le convivenze di fatto, la Corte di Cassazione torna nuovamente ad affrontare il tema della remunerazione delle attività lavorative prestate da un convivente in favore del partner.
L’approccio continua a essere quello tradizionale basato sulla presunzione di gratuità del lavoro prestato, in analogia a quanto accade nel matrimonio, ove è gratuito il lavoro in favore del coniuge e di altri familiari.
Nell’impaziente attesa di una disciplina normativa organica della famiglia di fatto, i nostri giudici continuano a fare applicazione dei principi di diritto comune e le decisioni si muovono nel solco di una consolidata tradizione che tende a ricondurre le prestazioni lavorative tra conviventi more uxorio tra quelle eseguite “a motivo di benevolenza” e dunque gratuitamente, in forza di una vera e propria estensione analogica ai rapporti tra i coniugi .
La giurisprudenza ha comunque escluso la presunzione di gratuità in presenza di un semplice rapporto affettivo e sessuale oppure nel caso del rapporto tra il proprietario di un albergo e una signorina la cui convivenza, seppure improntata all’estrema confidenza e familiarità, era limitata al periodo della stagione termale (al massimo compresa tra maggio ed ottobre) perché in questo caso difettava una stabile e duratura comunione di vita materiale e spirituale assimilabile nei fatti all’unione matrimoniale.
Sulla soluzione del problema vanno ad influire le disposizioni del ddl Cirinnà le quali affrontano il tema in esame proponendo una soluzione differenziata a seconda che si tratti di unioni civili (tra persone dello stesso sesso), oppure convivenze di fatto.
Articolo pubblicato su ECO DI BIELLA 21 marzo 2016